Candela è un paesino che lega la Campania alla
Puglia. I viaggiatori diretti a Bari lo incontrano alla sommità
dell’Appennino, finita la salita dell’Irpinia d’Oriente. Spalanca gli
occhi alla Daunia, li dirige sugli ettari di grano del Tavoliere, verso
Foggia. A Candela nessuno pensava fino a vent’anni fa che
il vento
si potesse anche vendere. Il vento qui ha sempre fatto solo il suo
mestiere: soffiare. Soffia quasi sempre, anche duemila ore all’anno.
Contano le ore coloro che fanno quattrini col vento. Con un anemometro,
un’asta lunga, una specie di ago d’acciaio diretto al cielo, si può
conoscere se è buono o cattivo, forte o debole. Se soffia come si deve o
se fa i capricci. Se è utile a far fare quattrini, dunque.
Arrivarono
le aste e con loro particolari personaggi che organizzavano il mercato
del vento. Sviluppatori si chiamavano. Sviluppavano il territorio,
certo. Gli agricoltori di Candela ne furono lieti, anche il sindaco e
tutta l’amministrazione comunale. C’era la possibilità di ottenere
qualche migliaio di euro dalla società che avrebbe innalzato le
pale eoliche.
E soldi per fare una bella festa patronale per esempio e far venire
(altrove era già successo) i cantanti di X Factor finalmente! E anche
sostenere la squadra di calcio: divise nuove per tutti!
Pure belle
sono le pale. Se le vedi da lontano sembrano rosoni d’acciaio o
margherite giganti, dipende dai tuoi occhi, da dove le miri. Fanno la
loro figura comunque. Ognuno degli abitanti del vento ha una sua
immagine da offrire al pubblico dibattito. A un sindaco del Tarantino,
per esempio, parevano simili a mulini a vento: “Abbiamo già il mare e
avremo i mulini, delle possibili attrazioni per il nostro territorio
sempre danneggiato, vilipeso dal nord”.
Le pale eoliche messe una accanto all’altra formano, come ha sempre spiegato
Legambiente,
un parco eolico. La parola parco dice tutto: significa ambiente
tutelato, prati verdi, cielo azzurro, aria pulita. Finalmente il sud non
avrebbe insozzato l’aria, anzi l’avrebbe trattenuta e gestita nel
miglior modo possibile. Così a Rocchetta Sant’Antonio iniziarono a
mettere le pale che pian piano giunsero fino a Candela, poi si volsero
verso Monteverde e Lacedonia, paesi limitrofi. Puntarono in direzione di
Foggia, cinsero Sant’Agata di Puglia come un pugno stringe una rosa,
s’incamminarono verso Lesina, verso il mare dell’Adriatico.
Pale,
pale, pale. Un alluvione di pale che ha conquistato tutto il sud. Loro
in cima alle montagne, i pannelli fotovoltaici in terra. Creste
d’acciaio in aria, e in basso silicio al posto degli ulivi, come in
Salento, silicio invece degli agrumi, come in Calabria. Silicio e non
pomodori, o vitigni, o alberi. Silicio in nome dell’energia sostenibile,
del Protocollo di Kyoto, delle attività ecocompatibili. In nome del
futuro dell’uomo. Conviene dunque partire da qui, dall’Irpinia
d’Oriente, epicentro del vento, per illustrare il più straordinario,
galattico affare di questo inizio secolo. Per domandare come sia stato
possibile costruire una fabbrica di quattrini per pochi intimi, un giro
d’affari che nel 2020 toccherà punte multimiliardarie, deviando nelle
casse pubbliche qualche spicciolo. L’equivalente di un’elemosina. Come
sia potuto accadere che un tesoro collettivo inesauribile è stato ceduto
ai privati. Che non una pala, una!, sia veramente e totalmente
pubblica. Per volere di chi, grazie a complicità di quali menti, di
quali mani, di quali occhi? E in ragione di quale bene comune il
bilancio statale ha immaginato di destinare, per sostenere il ciclo
vitale dello sviluppo delle rinnovabili, un monte di soldi che, in una
puntuale, analitica interrogazione parlamentare al ministro dello
Sviluppo economico e a quello dell’Ambiente, la radicale Elisabetta
Zamparutti, unica curiosa tra le centinaia di colleghi silenti, stima in
circa
230 miliardi di euro. Solo quest’anno, nel tempo
feroce della spending review che taglia ospedali e trasporti, trasforma
in invisibili gli operai, taglia commesse e finanziamenti e con loro
cancella la vita precaria dei precari, si dovranno accantonare altri
dieci miliardi di euro da investire nello sviluppo delle fonti
energetiche rinnovabili, le cosiddette Fer. Dieci miliardi! Uno sforzo
titanico a cui gli italiani sono chiamati a partecipare versando l’obolo
in rate bimestrali attraverso un sovrappiù della bolletta elettrica. Si
chiamano incentivi. Erano i famigerati certificati verdi sterilizzati
da nuove norme, le cosiddette “aste”. E non ha importanza che la soglia
di rinnovabile elettrica sia stata raggiunta impetuosamente con otto
anni di anticipo.
ORIZZONTE D’ACCIAIO
Candela
accoglie i viaggiatori nel grande piazzale di una stazione di
rifornimento di carburante. Il vento spazza l’asfalto. La sosta è
obbligata per i bus che collegano l’est con l’ovest del Mezzogiorno.
Arrivano le corriere da Napoli. Chi vuole andare a Foggia non conta
infatti sul treno, sarebbe una via crucis. Perciò il bus. Il viaggiatore
può attenderlo nel bar di antico sapore bulgaro. Una stradina lo
costeggia e ci conduce verso Rocchetta Sant’Antonio, sulla linea di
confine pugliese. Superata la prima curva, l’orizzonte si fa d’acciaio.
Una foresta di tubi e di pale, l’una dietro l’altra a recinto dei
crinali delle montagne. L’orizzonte è tagliato dalle eliche, sembra che
la terra possa decollare e tutti noi puntare da un momento all’altro
verso il paradiso. “I contadini hanno fittato agli imprenditori del
vento e si sono rifugiati altrove – dice Enzo Cripezzi, presidente della
Lipu Puglia e uno dei maggiori indagatori del fenomeno eolico – Hanno
messo in tasca i pochi quattrini, una somma comunque incomparabile
rispetto al reddito miserabile dell’agricoltura, e hanno scelto
l’abbandono. Sono fuggiti col tesoretto, felici finalmente”. Verso
Rocchetta troviamo a far compagnia alle torri una poiana, rapace
autoctono, che tenta di fare spuntino con una lucertola e poi compare
più in là un biancone. Sono uccelli migratori, profondi conoscitori
delle correnti del vento. Vivono grazie ai vortici depressionari che
d’estate li conducono in Italia, in Spagna, nei territori caldi
dell’Europa e l’inverno li riportano in Africa dove attendono il nuovo
viaggio. Il biancone, della larga famiglia delle aquile, conosce così
bene le correnti da superarle aggirando il Mediterraneo, prendendolo ai
fianchi: costa ligure, costa azzurra, costa brava, stretto di
Gibilterra, infine Marocco. Fanno fatica a superare l’acqua e questi
uccelli migratori sono simili – in quanto a viaggi della speranza – agli
uomini migranti. Gli umani muoiono sui barconi, gli animali in aria se
il loro corpo non resiste alla fatica che la natura impone. Fino a ieri
il pericolo era il canale di Sicilia, superato il quale veleggiavano
verso la salvezza. Adesso no, le eliche li
confondonoeliannientano.Inibbireali,lecicognenere, specie protetta e
rara, possono incappare nelle turbine, ferirsi e morire. Così i falchi,
le poiane, e ogni uccello che tenti di attraversare l’Appennino. Effetti
collaterali minori, si dirà. E qual è l’effetto visivo, l’impatto
ambientale, la forza prepotente e magica di questi spuntoni di roccia
che affiorano sui pendii descritti da Gabriele Salvatores nel film Io
non ho paura?. “La natura non aveva preventivato le pale eoliche – dice
Cripezzi – Guardare oggi questo panorama e compararlo con quello di ieri
fa venire un’enorme tristezza, un dolore profondo e rabbia”. La
stradina si confonde al vecchio tratturo e punta su Monteverde. Il paese
che guarda le pale. 850 abitanti, solo un anziano sulla panchina: “A me
fanno venire le vertigini. Allora piglio una pasticca e tutto passa”.
DECIDONO LE REGIONI
Non
si può dire no al petrolio e affossare l’eolico e il fotovoltaico,
certo. Ma si poteva, anzi si doveva gestire il territorio, dividerlo per
caratura paesaggistica, garantire alle pale un luogo e al paesaggio la
sua identità. Scegliere dove metterle, e come. Preservare il possibile e
il giusto. Invece? Invece la legge nazionale delega alle regioni. Lo
sviluppo dell’energia è questione loro. E il paesaggio tutelato dalla
Costituzione? Problema locale. Le Regioni anziché fare un piano
regolatore dei venti e delle pale e promuovere partecipazioni pubbliche
allo sviluppo dell’energia pulita, rendendo bene comune, esattamente
come l’acqua, il vento e il sole, privatizzano progetti e attuatori.
Tutto demandato agli uffici del Via, microscopici controllori della
legalità e del paesaggio che col tempo fungono da predellino delle
lobbies.“L’Europa ci vieta, per le norme sulla concorrenza, di prendere
parte all’impresa”. Un leit motiv non soltanto falso, ma irriconoscente
della realtà: non era vero, né poteva esserlo. Ma era comodo dirlo.
Pensate che la signora Renata Polverini, presidente della Regione Lazio,
nel primo semestre di quest’anno ha prodotto circa 230 nomine tra
consulenti e consiglieri di amministrazione nelle più diverse e bizzarre
diversificazioni merceologiche dell’intervento pubblico. Manca solo
l’azienda regionale per la promozione del cioccolato bianco. Tutto si
può e tutto si fa, ma l’energia non è un bene pubblico, e lo
sfruttamento delle risorse naturali non è questione collettiva.
Ricordiamo le parole di sintesi – a proposito della discussione sulla
misura degli incentivi da dare ai privati – di Gianfranco Micciché,
viceministro al tempo del governo Berlusconi, noto a tutti per le sue
battaglie ambientaliste: “Chi tocca il fotovoltaico si propone di far
cadere il governo”. E così i raggi del sole si sono trasformati in
infiltrazioni private sulla terra. Affari della
Sanyo, come a
Torre Santa Susanna,
in provincia di Brindisi. Decine di ettari di terreno confiscati
all’agricoltura sui quali sono stati riposti 33mila moduli solari per
farne l’impianto tra i più grandi d’Europa. Finanziamento tedesco e
tecnologia giapponese. “Vorrei esprimere le nostre sincere
congratulazioni per il completamento di questo progetto e ringraziare
Deutsche Bank
per averci dato fiducia nella scelta dei nostri moduli solari”,
commentò Misturu Homma, executive vice President di Sanyo. Giusto. Il
sole è italiano, ma non conta, non vale. Non si vende. Si regala. Come
pure i terreni. Pochi quattrini e affare fatto. Oggi il ministro
dell’Agricoltura, l’unico sensibile al consumo del suolo, propone una
moratoria uno stop al consumo del suolo. Il governo ha appena licenziato
il disegno di legge. Catania non è stato certo aiutato dal collega
dell’Ambiente, il prode Clini. Clini non sa o non ricorda che in Italia
esistono circa 13 milioni di abitazioni costruite dopo il 1970, quindi
senza particolare tutele. Sui tetti i pannelli e gli ulivi per terra:
era più naturale e forse possibile? Possibile senz’altro ma troppo
dispendioso per i privati: molto più facile tombare di silicio centinaia
di ettari di terreno. Molto più veloce e produttivo.
Sono stati
cementificati 750mila ettari di territorio solo nell’ultimo decennio.
Una parte poteva essere destinata ad ospitare i pannelli? Macché, troppo
complicato. Via col vento e col sole dunque. E via con le imprese.
Il
Mezzogiorno è stato spartito in spicchi d’influenza.Ad alcune aziende
monopoliste sono stati affidati i lucchetti: la Fortore Energia ha cinto
la Puglia, l’Ipvc la Campania, Moncada la Sicilia. In Calabria molte
srl, alcune delle quali facenti capo indirettamente alle famiglie più
importanti della
‘ndrangheta. La Piana lametina e il
Crotonese sono stati assoggettati all’illegalità più clamorosa,
plateale. Non c’è pala messa che non sia stata accompagnata da
un’inchiesta giudiziaria. Truffa, corruzione, falso. Il trittico dei
reati tipici, la serializzazione dell’attività giudiziaria. Energia
pulita per mani sporche. Non tutte sporche, naturalmente. E non tutti
imprenditori affaristi, naturalmente. Ma di certo tutti hanno goduto di
una deregulation mai vista, incredibile solo a pensarci.
Edison,
Sorgenia, Green Power, Sanyo e poi olandesi, spagnoli, cinesi. Tutti nel
business. Solo privati però, sempre privati. Lo Stato non ha
partecipato in nessuna forma, e gli enti locali neanche per sogno hanno
accompagnato lo sviluppo eolico con una loro presenza, magari anche
minoritaria, nelle società di produzione. In Puglia la fabbrica
ideologica di
Nichi Vendola, secondo cui l’energia, per
il solo fatto di essere rinnovabile e pulita fosse obbligatoriamente da
catalogarsi a sinistra, ha permesso a essa di straripare. A nord della
regione le pale, a sud i pannelli. Nichi ha chiuso la stalla quando i
buoi erano già tutti scappati. La Campania è stata comprata come detto
dal signor Vigorito, capo dell’Ipvc, pioniere del vento. Acclamato
presidente dell’Anev, l’associazione degli industriali del vento.
Associazione “ambientalista” secondo i protocolli in uso per i tavoli
del ministero dell’Ambiente. Una benemerita. Nel 2005 Legambiente e Anev
hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con lo scopo di promuovere
l’eolico in Italia.“Insieme organizzano e collaborano”, scrive il sito
ufficiale degli imprenditori. Purtroppo nel 2009 il presidente
dell’Anev, questa titolata associazione ambientalista, viene arrestato.
La Guardia di Finanza sequestra sette “parchi” eolici in diverse regioni
e accusa Vigorito…
Era ieri. Torniamo all’oggi. Al 2011 sono state installate
5500 torri eoliche
per quasi settemila megawatt di potenza installata. Altrettante sono in
arrivo. Tutte concesse a tempo di record. E chi vorrà dedicarsi alla
coltivazione del mini eolico (torri alte anche cento metri fino a 1
megawatt) non dovrà neanche attendere la firma: basta la dichiarazione
di inizio attività. Sarà zeppo di acciaio anche ciò che ora è libero da
impianti. Anche le vostre montagne e i vostri occhi dovranno abituarsi.
Serve energia pulita. E che nessuno fiati.
di Antonello Caporale
da Il Fatto Quotidiano del 16 settembre 2012